“Existence, well, what does it matter?
I exist on the best terms I can
The past is now part of my future
The present is well out of hands”
Le prime parole pronunciate da Sam Riley, vera e propria (e quanto mai sorprendente) reincarnazione di Ian Curtis, richiamano una certa ontologia heideggeriana nel definire l’esistenza nella sua indefinibilità o meglio nell’inevitabile fallimento della stessa nel cercare un significato al di fuori dell’essere.
Il fotografo Anton Corbijn, più che il videomaker, non fa nulla di sontuoso o agiografico nel portare sullo schermo gli ultimi tre anni di vita del leader dei Joy Division, ma si limita a documentarne il quotidiano, senza trascendere in oniriche visioni spettrali tipiche dei film sulle rock star.
La storia tanto scarna e asciutta, quanto emotivamente carica di Curtis viene descritta in tutto il suo essere imperfetta e immatura, come quella di tanti altri suoi coetanei che andavano alla ricerca droghe facili e che confondevano l’amore con una bella giornata di sole!
Il personaggio passa dal derubare una vecchietta, sottraendole farmaci psicoattivi dall’armadietto della toilette a citare Wordsworth come un membro della setta dei poeti estinti dell’attimo fuggente di Weir, senza che ciò determini un trauma narrativo nell’evoluzione del racconto, il tutto grazie alla sapienza cinematografica di Corbijn. La descrizione magra e al contempo profonda della provincia inglese degli ultimi anni settanta è qualcosa di poetico nel suo bianco e nero che restituisce il giusto grigio esistenziale. La regia che timidamente richiama Ken Loach e Jean Luc Godard (sebbene molto differenti l’uno dall’altro) si concretizza in un tallonamento della macchina da presa nei confronti di Sam/Ian alla ricerca della sua componente umana lasciando emergere la sua acerba e irresponsabile incompletezza e la sua estrema, forse eccessiva, sensibilità provocata da una insana consapevolezza della gratuità della vita.
Il passato e il futuro sono intoccabili e il presente è sfuggevole (out of hands) o meglio non è gestibile nel suo essere o meglio non esiste! Questo precario equilibrio che genera quella vertigine che Sartre traduce nella Nausea e che, nell’affanno sterile di attribuire un senso all’esistere, si declina nell’Angoscia per Kierkegaard è ingovernabile per Ian e culmina nella più tragica delle conseguenze.
Questo percorso ci viene illustrato senza tanti fronzoli, con uno stile asciutto e delle immagini schiacciate ai limiti del bidimensionale (per l’appunto il Corbijn fotografo) quasi ad indicare una coercizione, un limitata possibilità di movimento, una gabbia. La vicenda discografica è solo sfondo al viaggio di Curtis e i brani dei Joy Division sono l’espressione di una sofferenza kafkiana più che la descrizione di un imminente successo destinato a non palesarsi se non postumo. Molto più spazio per i silenzi, i pianti, i dialoghi striminziti e gli attacchi di epilessia. L’incisività del messaggio è altresì corroborata dal fatto che il soggetto è tratto dal libro “Touching from a distance” scritto dalla testimone più attendibile, ovvero quella Deborah Curtis che partecipa oltremodo alla realizzazione in qualità di co-sceneggiatrice e co-produttrice (chissà se ha anche preparato le frittelle!!)
In perfetto stile indie, il lavoro è stato curato nella produzione e distribuzione dalla Becker International, già responsabile della promozione di due lavori di casa Soderbergh come “Bubble” e “Good night and good luck”, coraggiosissimi progetti il secondo dei quali diretto dal nostro connazionale onorario George Clooney!
Gli attori/musicisti suonano davvero sia in live che in studio, ovverosia il lucido sgomento dei testi di Curtis ci viene consegnato da Riley in puro regime di diegesi.
Nel suo piccolo è un capolavoro!
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