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dedicato a Umberto



Prose is prose
is prose...

 

RECENSIONE INDIE

di Giuseppe Iacobaci

 


Temi Svolti per i tuoi esami di maturità:
Recensione Indie - Bananarama feat. Lee Ranaldo & Friends

"Robert De Niro's waiting", il singolo trascinante del trio di ex giovinette, è solo l'antipasto di una serata no-no-pity, l'ultima tendenza newyorkese di recupero del trashpop in versione amareggiata e acida. Lee Ranaldo seppellisce subito di decibel, ruggendo anni novanta, le tre ex ragazze, che si dibattono producendosi in vocalizzi strozzati capaci di far rimpiangere i tempi che furono, sulle basi ritmiche rubate alle mai rimpiante Coconuts. Questa è roba che ti acchiappa lo stomaco e ti rapisce, sounds good, è la musica dal basso, ogni posto ha la sua. Le voci, ancor più dei testi, raccontano del destino di ex popstar dedite all'alcol e al sesso non protetto, e viceversa, alle protezioni senza sesso, e locla'lla; le giugulari si gonfiano e ricadono rugose, mentre la duecorde e mezzo del grande Lee le insegue su scale cromatiche appartenenti ad altri tempi e culture, a iperboli onanistiche di stampo bauhaus (non quei bauhaus, con buona pace del caro Peter). È la musica, la tua musica ma è giusto che io la senta mia. "Na Na Hey Hey Kiss Him Goodbye" è l'anticlimax: più le giugulari si gonfiano, più gli applausi latitano, è il trionfo dell'estetica no-no-pity. Su "Hot line to heaven" accorre Paul Hardcastle con campionamenti Commodore (e il signor Hansen è sempre in debito: The Last Ninja, Wizball, lui, ben prima di egli!) a sostenere la sezione ritmica dell'indimenticato Kid Creole, con smitragliamenti corruschi e scorreggette protosoniche, scrotiche, che strappano non poche lacrime di nostalgia alla cassiera. Non convince per nulla il fracasso dei bonghi per lungo tempo apparso fuori contesto, ma il solito chitarrista in dieta perenne in piena estasi da esibizione che offre costantemente mezza coscia e mezzo culo al pubblico, è da amare. Se gli altri brani avessero il sessanta percento di quell’afrodisiaco non ci sarebbe da chiedere null’altro. Il Vov scorre a fiumi (passi il nisba al fumo ma tu non puoi entrare col bicchierozzo in un concerto equivale a giocare alla roulette russa col caricatore pieno a tappo), la commozione è tangibile: l'età media in questo scempio è davvero diciannove anni, come paventato da Hardcastle anni addietro; ma il proprietario del pub ha portato il figlio appena nato e un'ampia schiera di cuginetti coevi, e qualcosa nel calcolo di cui sopra puzza di losco, di sentimento pilotato. Negli encore, peraltro non esattamente richiesti, la guest star Cristina D'Avena si presenta sul palco con i suoi amici in tivù e tutti insieme intonano un pout-pourri di "Perdere l'amore", "Ehi musino", "Tu fai schifo sempre" e "La glaciazione" dei Subsonica, no di certo originali ma enormi musicisti tra i quali (solo) esteticamente pecca il bassista in look fuori look. E Ranaldo compie l'atto dovuto imbracciando stavolta un corrusco khalasnikov, le cui note sussultorie (complice un incongruo wha wha) trucidano la parte della platea non ancora uccisa dalla musica e dai peti ripetuti dell'ottantenne lead singer (la brunetta). È il non non-nontrionfo, sarebbe bello se ci fosse qualcuno a poterlo raccontare. That's Napalm, baby.


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