Ritengo sia modo adeguato e conforme al trend di questo magazine iniziare a parlare non di un film né di un film indipendente, ma del cinema indipendente, senza naturalmente dilungarmi in archeologici manieristici riferimenti, bensì attingendo qua e là nella fenomenologia generale, per giustificare e contestualizzare quanto segue.
Rumore è, per definizione, un intreccio di onde sonore disordinate in un amalgama di ampiezze e frequenze e trovo sia un idioma azzeccato per identificare un progetto e un collettivo che prospettano un’alternativa alla cultura mainstream; curiosamente rumore è altresì un termine utilizzato nel linguaggio tecnico della ripresa cinematografica allorquando l’immagine si presenta particolarmente granulosa.
Ciò che caratterizza il cinema indipendente è un insieme di elementi più o meno netti tra i quali prosaicamente si stagliano l’autoproduzione e il conseguente utilizzo di strumenti dai costi contenuti. Così, se un tempo si ricorreva al 16mm, al 8mm o al Super8, oggi si utilizza il digitale con un risultato di qualità discreta, tuttavia ben lontano dall’eccellenza del 35mm. Infatti, un occhio attento e non necessariamente autorevole noterebbe che l’immagine non è totalmente limpida, ma presenta delle impercettibili macchie sulla cosiddetta “pasta”. Pertanto, se con “rumori” possono intendersi suoni non convenzionali, ovverosia voci difficilmente supportate dai potenti della musica, poiché non conformi a un trend pseudocommerciale, quei fievoli fiocchi di neve, caratteristici di un cinema di sottobosco e di produzioni homemade simboleggiano “indipendenza” (per l’appunto!) da un compromesso industriale e ne rappresentano un’alternativa, un’espressione libera e in quanto tale sincera, onesta, poetica, ma anche disordinata e sporca!
L’imperfezione come emblema di libertà, come opportunità di sperimentare, come strascico di una rivoluzione; per quanto minuscola, per quanto atomistica, un’espressione di sana controcultura.
Abbiamo assistito, negli anni, a diversi movimenti di cinema indipendente e della maggior parte non ne siamo facilmente a conoscenza, se non per mirata curiosità professionale o semplice prurito accademico. Così se la Nouvelle Vague passa prepotentemente alla storia e determina parte della cinematografia successiva, il New American Cinema, praticamente ad essa contemporaneo, non lascia la stessa indelebile traccia e si configura come una poetica che si smolecolarizza nel tempo, maculando inavvertitamente parte delle produzioni posteriori. Inoltre, non tutti sanno che la nascita di un sentimento “indie” nella creazione filmica, ciò che un tempo era decisamente etichettato “underground”, risale al biennio ’43-’45 con i lavori di Maya Deren, emissaria di una geniale avanguardia che proponeva un’estetica filmica profondamente poetica che non si sviluppava semplicemente in una narrazione lineare, ma procedeva verticalmente, inabissandosi nei processi di significazione, valorizzando l’invisibile, consentendo ad uno spettatore sensibile di intuire strati di realtà nascosta.
Come la maggior parte di noi sostiene, “indie” non vuol dire solo e banalmente autonomia produttiva e sperimentazione iperbolica con conseguente ed inevitabile stravolgimento di una grammatica espressiva, bensì una vera e propria filosofia nel concepire l’arte.
Una produzione indie è di per se un’alternativa, anche se superficialmente non presenta tratti di innovazione o di studio particolari; è un viaggio di sangue, sudore e lacrime diverso dal percorso tenero e flautato della produzione in seno a una major e il suo prodotto traspirerà in un modo o nell’altro un’emozione e una consapevolezza propri di cotanta esperienza. Ma se la poesia, il talento sono concetti trasversali agli aspetti pratici della realizzazione artistica, ci si potrebbe chiedere perché mai autori supportati da major non potrebbero fare altrettanto. Non è un caso infatti che parecchi attori e registi i quali normalmente lavorano per le grandi case cinematografiche hollywoodiane si sganciano dal mondo delle major per partecipare e talvolta finanziare progetti che risultano deliziosi ai critici più pretenziosi. La sociologia, come la psicologia dell’arte c’insegnano che nel disagio e nella difficoltà nascono le opere più eccelse e pregne di significato e benché tale assunto possa risultare pressoché riduttivo, lo accettiamo serenamente. Pertanto è ragionevole associare un termine come “indie” ad elementi pratici e concreti della creazione, senza tuttavia fossilizzarci in essi e aprendo lo stesso a un impulso e una sensibilità puramente umana.
Allorché un artista celebre come Robert Redford istituisce il Sundance a suffragio del cinema indipendente e altre illustri star si prestano alla realizzazione di progetti simili, ecco che le major si vedono quasi costrette a prendere provvedimenti per cercare di coprire quella nicchia di mercato appannaggio di poche compagnie come la Lions Gate responsabile di tante fetenzie (indipendente a volte vuol dire anche questo), ma anche di capolavori come Hard candy di cui accennerò alla fine o come la Newmarket che i più assocerebbero a Memento e Donnie Darko, ma che al sottoscritto piace ricordare più per I soliti sospetti e Y tu mama tambien. È così che la 20th Century Fox crea la Fox Searchlight, la Warner Bros. genera la Warner Indipendent e tante altre major fanno altrettanto assicurandosi una fetta del mercato cinematografico indipendente. Ciò non ha assolutamente contaminato la creatività e la maggior parte degli artisti non ha compiuto il trapasso verso l’oscuro lato del cinema borghese. Anzi. Certi capolavori sono la testimonianza di quanto siano talentuosi certi cineasti e cosa essi possano creare se in grado di disporre di un certo budget.
Il cinema europeo e buona parte di quello asiatico, non presentando lo stesso gap economico-industriale di quello americano, non esistendo dei veri e propri colossi, si è semplicemente differenziato e come da manuale il cinema indie si distingue prevalentemente in aree storicamente meno fortunate. Nell’Europa dell’est, negli ultimi anni sono nate opere a dir poco incantevoli che non a caso hanno avuto il loro riscontro in manifestazioni autorevoli come il festival di Cannes. È il caso di 4 mesi 3 settimane 2 giorni vincitore della Palma d’oro 2007. Anche nel più felice Belgio si sono distinti i fratelli Dardenne più volte vincitori o menzionati dalle giurie di maggior parte dei festival europei.
Nel medio oriente, precisamente in Libano, circa un anno ad oggi è stato realizzato Caramel dalla virtuosissima Nadine Labaki, affresco delicato di una Beirut non tanto in forma, degno di un capolavoro fiammingo, dove la guerra, le controversie tra etnie differenti e tra cristiani e musulmani, l’omosessualità costituiscono un carezzevole e impalpabile sfondo a vicende amorose (e non) di matrice almodovariana, confezionato da una regia e una fotografia insuperabili e una colonna sonora da brivido.
In Italia (ahimè!), al di là di qualche perla in mezzo ai sassi, il cinema non sembra essere in buona salute. A parere del sottoscritto mancano alcuni elementi basilari, ma ignorati come se si trattasse di accessoriato da sala d’aspetto, tra i quali risaltano maggiormente la preparazione e l’umiltà. Si vede che in Italia sono nati migliaia di Orson Welles e Lawrence Olivier che giustamente dovranno sfogare la propria creatività da qualche parte!! Ed è così che un Moccia che già non è in grado di fare il prorpio mestiere si mette dietro una macchina da presa, oppure mentre in America impazzano serie TV come Bones, CSI, Dexter, Battlestar Galactica che, a prescindere dai singoli gusti sono indubbiamente realizzati come se ogni puntata fosse un film a se stante, senza parlare di Lost che ha letteralmente rivoluzionato il linguaggio delle fiction, in Italia abbiamo RIS delitti imperfetti, Distretto di polizia e tanta di quella spazzatura che comprensibilmente si allinea ad uno spirito socioculturale putrido e oscurantista. Mentre nella musica c’è una reazione a tutto ciò, nel cinema il sentimento indie è spesso associato a quella sicumera da artista navigato, nonché alla tendenza a ingarbugliare generi e inventare nuove improbabili sintassi cinematografiche per ottenere solo un pasticcio mascherato da una finta aura d’originalità. Ho avuto il piacere di fare la conoscenza di alcune tra le nuove leve della regia italiana e ho potuto appurare una simile inclinazione anche nel mondo dei videoclip. Ovvero: che aspettative si possono avere quando si abusa di software di effetti speciali senza essere in grado di girare un piano sequenza e si ha come esempio Cosimo Alemà o Stefano Salvati (ma l’avete mai visto quant’è brutto un video di Vasco Rossi?).
A proposito di videoclip, inoltrandoci nell’angolo dei consigli per gli acquisti si vuole energicamente riferire di un artista che dopo aver collaborato con Tori Amos, Aphex Twin e Muse, con dei risultati eccellenti approda al cinema con Hard candy, dove si affronta l’argomento pedofilia senza la retorica da rotocalco di tv generalista e con uno stile ereditato dall’esperienza da videomaker misto ad un approccio narrativo da pièce teatrale. Certo l’apporto di Ellen Page come attrice protagonista (i più la conoscono per la sua interpretazione in Juno) rende pregevolissimo ciò che già era un lavoro esemplare. Insomma si parla di David Slade che come già aveva fatto Michel Gondry approda al grande schermo senza deludere le aspettative. Diventa a questo punto doveroso citare Anton Corbijn che si presenta al cinema con Control, ma di questo vorrei parlare un’altra volta. Hard candy è un quadro preciso e puntuale della definizione di violenza senza tutte quelle sordide attenuanti che tendono a sconvolgere concetti semplici come libertà e uguaglianza in un mondo licenzioso e degenerato. Il diritto di essere donna, di sognare di esserlo, di simularlo senza essere tacciate di sfida o provocazione.
Sul fronte europeo, a dispetto di quanto s’è detto, il consiglio riguarda proprio un film italiano. Si tratta di Cover boy di Carmine Amoroso, cineasta fermo da dieci anni (è del 1997 il precedente Come mi vuoi). Contrastato da subito, avendo sofferto il dietrofront dei finanziamenti pubblici riesce ad uscire nelle sale, dopo svariate difficoltà, a marzo di quest’anno, anche e soprattutto grazie al fatto di aver ricevuto innumerevoli premi e menzioni in diverse occasioni tra cui i festival di Rotterdam, Barcellona, Brooklyn, Amburgo e Valencia. Cover boy incarna tutte le fattezze del cinema indipendente, proprio per la sua purezza, la sua onestà intellettuale, il suo profondo umanesimo. I temi della solitudine e della precarietà sono affrontati con un tatto straordinario ed espressi attraverso un lirismo unico.
Gli esempi di ottimo cinema sono smisurati e si potrebbe citarne e prenderne in esame un numero vastissimo. Quelli di cui si è parlato rappresentano sporadiche molecole di una produzione ben più ampia, ma sarà che mi hanno particolarmente toccato o semplicemente che li ho scoperti di recente, essi costituiscono la mia lista della spesa.
Vorrei concludere con ciò che definirei “consigli per gli artisti”. Benché non mi si possa definire più che un neofita, mi sento di suggerire un approccio più totale possibile al filmaking. Non basta un’idea geniale o un guizzo estroso e distintivo, non se si vuole tradurli in audiovisivo. È necessario elaborare, trasformare, mettere in discussione e a volte tradire la propria creatura; spesso vanno adottate misure dolorose al fine di ottenere uno script appropriato e funzionale. In quanto alla ripresa e alla postproduzione spesso si pensa che scegliendo delle inquadrature bizzarre e surreali e un montaggio caotico si è rivoluzionato il modo di fare cinema, ma il più delle volte ci si discosta dall’opera originale con un esito di dubbia fattura. Quantunque si possa non gradire, il cinema, come tutte le arti ha esigenze strutturali che non prescindono da un aspetto puramente disciplinare e la loro non osservanza non è una rivoluzione, non è indie, è solo anarchia creativa. Indie è limpidezza, trasparenza, sguardo aperto e pudore intellettuale. Sperimentazione, contaminazione, umiltà e consapevolezza.
Non è verità, ma ci andiamo vicino. Rumore.
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