“C’è sempre qualcosa che non torna nei film di Bellocchio”, disse il critico Alberto Pezzotta qualche anno fa. È vero. C’è sempre qualcosa che stride, che disturba, che non convince. Sarà per questo che il cinema del regista piacentino divide da sempre, tanto il pubblico quanto la critica: c’è chi lo trova supponente, cerebrale, prigioniero della metafora e degli intellettualismi, chi trova le sue sceneggiature “bucate”, e chi invece ne apprezza la sottigliezza, la capacità di rischiare, di far riflettere, di colpire allo stomaco.
‘Vincere’ non fa eccezione. Tanto per cominciare, perché tutto quel sesso, tutta questa claustrofobia, quel piano temporale sgangherato? Perché così lungo, così sconnesso? Perché Mussolini, perché oggi? Perché raccontare una storia privata di una singola donna quando si potrebbe parlare dei podestà e dei partigiani, delle purghe, della seconda guerra mondiale, degli ebrei?
Beh, tanto per cominciare, perché è così che lavora Bellocchio, sulle “questioni private”: creando un personaggio (in genere un diverso, un pazzo, una rotella fuori posto in un meccanismo a orologeria sociale perverso e perfettamente oliato) e portandolo alle più estreme conseguenze. Distruggendolo, schiacciandolo, sacrificandolo ai nostri occhi. Ida Dalser diventa così la visione astratta di un’epoca, perché attraverso la storia di questa donna, attraverso i suoi occhi e i suoi sentimenti, si manifesti reale e concreta l’atrocità di un regime (proprio come in tutt’altra maniera accade al bimbo del bellissimo “L’anno che i miei genitori andarono in vacanza”). Attraverso di lei l’intera condizione femminile, e quindi umana, di un’epoca, di una nazione, diventa reale, attuale, comprensibile, pulsa di sentimenti e ci parla in un modo diretto che va al di là delle epoche, dei luoghi e delle ideologie.
Quello proposto da Bellocchio non è un percorso semplice, ma di certo affascinante, stimolante. La lingua cinematografica di ‘Vincere’ è iperrealista, iperbolica: stordisce, saccheggia a piene mani proprio l’immaginario futurista, lo stesso Istituto Luce (com’è quasi ovvio), e fa abilmente ricorso alla cupa splendida fotografia di Daniele Ciprì.
Cinema cerebrale dunque, ma fatto per colpire allo stomaco, al cuore, che agisce sottopelle immedesimandoci senza tramite e senza rete nelle emozioni della protagonista. Impossibile non essere Ida, in qualche modo, impossibile non restare affascinati almeno per qualche istante dal giovane Benito che sfida Dio a fulminarlo entro cinque minuti, davanti a un prete esterrefatto e a un uditorio per metà affascinato e per metà pronto a linciare; impossibile non restare sempre più spiazzati di fronte alla crudeltà dell’amante perduto e irraggiungibile (non a caso Filippo Timi non appare più sullo schermo, se non per impersonare il figlio del dittatore, in una sequenza che da solo varrebbe l’intero prezzo del biglietto) e non sentirsi soli come lei in un mondo folle che la crede folle (o finge di crederci, di giorno, per poter chiudere gli occhi la notte: ecco cos’è la dittatura, quel meccanismo perverso e perfettamente oliato di disumanizzazione).
Un film importante e necessario, dunque, per chi crede che la Storia si possa capire davvero soltanto entrando nelle storie, nelle cosiddette questioni private.
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SCHEDA TECNICA DEL FILM
Anno
2008
Durata
128
Origine
ITALIA, FRANCIA
Colore
C
Genere
DRAMMATICO, STORICO
Produzione
MARIO GIANANI PER OFFSIDE, RAI CINEMA, CELLULOID DREAMS PRODUCTIONS IN COLLABORAZIONE CON ISTITUTO LUCE