Non è il caso di soffermarsi sulla narrazione. Lebanon è un film di guerra come tanti. E’ la cronaca di una guerra ripudiata, come tutte, principalmente da chi la combatte. I parallelismi con i “nineteens” del Vietnam, i poliziotti pasoliniani e chi più ne ha più ne metta si sprecherebbero, essendo l’antologia filmica piena di simili figure.
Il caso di Lebanon è un vero e proprio tripudio di regia. Narra le vicende di un gruppo di soldati che vivono (il termine più azzeccato) dentro un carro armato e la visione della guerra non è più quella maestosa e apocalittica di Coppola o quella aspra e tagliente di Kubrick, ma è stretta, buia e claustrofobica proprio come sono le guerre accerchianti e fagocitanti del conflitto arabo-sionista. Le riprese dall’interno del carro, dove il mirino si sostituisce prepotentemente alla macchina da presa cambiano la prospettiva della percezione di miseria e dolore. Lo spettatore come cecchino è una trovata sorprendente nel linguaggio della visione della morte.
La narrazione non emerge in quanto sangue, sudore e lacrime. Viene tradotta direttamente dalla grammatica cinematografica che nella sua semplicità espressiva (inquadratura stretta = senso di oppressione…) spiega un fenomeno semplice e banale e per questo atroce e straziante come la guerra. Ancor di più quando una guerra è più inutile che mai (o che sempre)!!
“Volevo che lo spettatore, non solo comprendesse questo sentimento, ma lo provasse” ha affermato Samuel Maoz, autore di questa opera prima. Samuel Maoz che, ventenne, l’ha anche combattuta… questa guerra.